Le testimonianze degli allievi
Se penso ad una delle cose più belle che mi sono capitate in questi quattro anni, mi viene subito in mente il mio cambiamento personale. Ed è questo che lego immediatamente alla mia diversa concezione di terapeuta, per come avrei voluto diventare quattro anni fa e come, invece, lo vedo e mi vedo oggi.
All’inizio di questo percorso pensavo che diventare terapeuta fosse una faticaccia…
Ma soprattutto pensavo di “dover” diventare un terapeuta che non avrebbe mai sbagliato, che non poteva concedersi errori, che avrebbe dovuto seguire “il modo giusto” per essere “efficace”.
Se questo era ciò che immaginavo come traguardo, adesso comprendo tutta la fatica che immaginavo di dover fare per arrivarci.
Ripensando a questi aspetti, oggi, mi viene spontaneo un sorriso. Ad un certo punto del mio percorso ho sentito che il giusto e lo sbagliato stavano perdendo di senso; così come il “dover fare”, il “sicuramente”, il “brava”. Sono uscita da quel binario morto per cui ad un estremo vedevo cose giuste e all’altro cose sbagliate.
Mi sono accorta che quel binario non mi portava da nessuna parte. Mi sono accorta che era così bello spaziare attraverso tante strade e godere il viaggio anziché il traguardo.
Mi sono accorta che è bello leggere i diversi modi di lettura del mondo: guardare il mondo con lenti diverse.
Ecco, questo è come mi sento oggi, come persona, come terapeuta: trovare curiosa ed interessante la lettura del mondo dell’altro, indossare nuovi occhiali, senza giudizi, viaggiare dentro la relazione con l’altro, procedere insieme.
Tutto ciò è stato reso possibile da questa esperienza, che mi porterò sempre con me, e da tutte le persone che ho incontrato dentro a questa esperienza: il gruppo, didatti e codidatti.
Ed oggi, con un gran respiro posso dire: ma quale faticaccia?? È stato divertente!
All’inizio di questo percorso mi immaginavo che ci fosse un solo modo di essere terapeuti. Mi immaginavo la psicoterapia come uno “spettacolo di magia”, dove la brava terapeuta, come un prestigiatore, fa uscire il coniglio dal cilindro, tira fuori la trovata geniale che lascia tutti a bocca aperta. Immaginavo la formazione come un addestramento a comprendere tutto della persona che avevo davanti in modo da poter modulare poi i miei interventi, non solo su un terreno per me sicuro, ma anche in modo tale che andassero nella direzione che mi confermasse, da parte del paziente, il suo essere stato compreso da me, accettato e perturbato. Nel corso dei quattro anni di formazione e della terapia personale ho fatto un’esperienza per me importante: scoprire in quanti modi diversi posso stare in relazione con gli altri. Questo aspetto mi ha permesso di trovare meno senso nella modalità relazionale del tipo “faccio tutto io” o “fai tutto tu”, verso un “vediamo cosa possiamo fare assieme io e te”. Oggi mi sento una terapeuta meno allarmata rispetto a cosa devo fare e, piuttosto, impegnata in un viaggio che parte dalla domanda: “che tipo di esperienza può fare questa persona con me?”. In tutto questo credo che un altro aspetto importante sia stato rispetto all’elaborazione della teoria che non vedo più solo come proposta di interpretazione del mondo, ma come la scelta per me più significativa di sentirmi nel mondo.
All’inizio della formazione credo di non avere avuto un’idea troppo precisa riguardo a che terapeuta sarei diventata, ricordo però di avere avuto chiara l’idea che probabilmente ci sarebbe stata una sorta di modello (di terapeuta) al quale aspirare, conformarsi, tentare di arrivare. Ricordo che l’idea del fare bene o male, essere o meno capace, mi ha accompagnata per un bel pezzo in questo percorso, così come anche l’idea che “si dovesse entrare dentro questa benedetta teoria”, non si sapeva bene come. E poi è successo che ad un certo punto ho smesso di pormi queste domande ed è come se a quel punto si aprisse di più la vista sul mondo dell’altro, che forse prima era oscurata proprio da quelle mie domande. Quasi come se prima di iniziare non avessi contemplato quello che sarebbe accaduto a me, poi in quanto terapeuta, e di come questi cambiamenti sarebbero stati fondamentali nella relazione terapeutica (e non solo, mi sentirei di dire). Oggi penso di “poter fare qualcosa” con l’altro, idea che, per quanto forse scontata per uno che vuole fare questo mestiere, io non credo, all’inizio, di avere avuto. Mi sento come se mi fosse consegnata e riconosciuta una “possibilità di…” e che forse adesso sta un po’ a me decidere in che modo giocarmela. Io l’ho scoperto qui dentro il mio modo di stare insieme agli altri, fuori è sempre stato “più facile” non soffermarmi su questo aspetto, ed ho scoperto qui dentro quanto questo potesse essere bello e, non lo so mettere in parole, il modo in cui si riflette oggi nel mio essere terapeuta, forse nell’idea che le cose si fanno insieme, che si partecipa ad una impresa comune, e per quanto questo sia ancora qualcosa in fase di costruzione, che ogni tanto rivedo, ho come la sensazione che sia ormai qualcosa da cui è impossibile prescindere, da cui non si torna indietro. Insomma, quando Gabriele quattro anni fa, in questa stanza, ci disse che gli allievi del CESIPc alla fine dei quattro cambiano, io dentro di me pensai, con rammarico, che a me questo probabilmente non sarebbe accaduto; oggi in questa stessa stanza mi sa che comincio a raccontarmi una storia diversa.
Inizialmente un terapeuta come tecnico, nel senso che riesce sempre a capire, a prevedere, a fare un’esperienza personale non particolarmente coinvolgente. Come se il paziente dovesse inventarsi da solo delle alternative, anche se grazie a certi tipi di domande. Visione che rispecchia in parte anche l’aspettativa che, inizialmente, avevo rispetto alla terapia personale: il diventare una persona “tutta di un pezzo” che non si accontenta mai, che vorrebbe diventare una persona migliore. Ripensandoci adesso, dopo i primi due anni, finita la parte teorica, è come se mi fossi aspettato di essere già terapeuta. L’esperienza di gruppo, di paziente, di terapeuta e di supervisionato mi ha portato a rivedere in modo significativo questa lettura. Adesso sento un coinvolgimento come terapeuta che chiamerei collaborativo e attivo nella ricerca di alternative sensate per il paziente. Ecco, l’aspetto più significativo è l’attivazione, l’interesse che sento oggi, un’attivazione a sentirsi presente nella relazione, un’attivazione alla ricerca di nuove “conoscenze” riconosciute a entrambi i partecipanti.